Considerando quanto previsto nell’accordo estivo (senza considerare gli annunci successivi di dazi al 100% per i prodotti farmaceutici branded e al 107% per la pasta), il Centro Studi di Assolombarda stima nel breve periodo una perdita potenziale di esportazioni relativamente contenuta, ma con il rischio di aumentare in modo consistente nel lungo termine. Tradotto in numeri, nell’orizzonte di un anno il calo di export per le imprese di Milano, Lodi, Monza Brianza e Pavia si attesterebbe a circa 900 milioni di euro, equivalenti a una diminuzione delle vendite verso il mercato americano dell’11,7% (rispetto ai 7,7 miliardi di euro esportati nel 2024) e a una flessione annua dell’export complessivo dell’1,1%.
Nel dettaglio dei settori, dei 900 milioni di euro di export stimati a rischio, la maggior parte si concentra in farmaceutica (-142 milioni di euro), moda (-137), meccanica (-121), chimica (-105), metalli (-101) e apparecchi elettrici (-97). Considerando, poi, l’esposizione al mercato statunitense dei comparti manifatturieri dei territori in esame, la flessione indotta dai dazi peserebbe maggiormente su farmaceutica e apparecchi elettrici (con un calo di export totale dell’1,6% in entrambi i casi), metalli (-1,4%) e moda (-1,2%).
Scomponendo per territori, l’impatto è atteso essere più elevato per le imprese di Milano, con un calo annuo di oltre 720 milioni di euro di fatturato estero (-1,2% di export totale) e di Monza Brianza, con una discesa di 150 milioni di euro (-1,0%). La flessione delle vendite totali verso i mercati internazionali è, invece, più contenuta a Lodi (-10 milioni di euro, -0,1% di export totale) e Pavia (-15 milioni di euro, -0,3%), dove l’export è meno dipendente dal mercato nordamericano.
Se si valuta l’effetto su un periodo di 7-10 anni, ipotizzando che i dazi oggi in vigore siano permanenti e che l’apprezzamento medio dell’euro resti in linea con quello sinora osservato, l’impatto sui territori del Quadrilatero quasi triplicherebbe, salendo a 2,3 miliardi di euro, equivalenti al 29,4% in meno di export verso gli USA e al 2,9% in meno nelle vendite complessive. Pur considerando la maggiore incertezza di stime a così lungo raggio, è evidente che gli impatti risultano potenzialmente ben più rilevanti. Nell’orizzonte più ampio c’è, infatti, una maggiore possibilità che gli importatori americani rimodulino le proprie catene di fornitura, diversificando con geografie più competitive in termini di prezzo, o addirittura che internalizzino la produzione di ciò che ora acquistano dall’estero.